Aspettando la partenza
Ci siamo: sono all’aeroporto pronta al check-in. Ho rimesso in spalla il mio zaino da 60 litri, cimelio del mio Interrail e i miei viaggi giovanili. Improvvisamente mi sembra terribilmente più pesante di come me lo ricordavo. Già entro in contatto con il mio paese di destinazione, mentre aspetto in fila il mio turno in mezzo a famiglie indiane, con gli uomini inturbantati e le donne nei loro vestiti tradizionali. Chissà come mai la maggior parte degli indiani che incontri in viaggio sono Sikh!
Giungo al mio turno…e ecco il primo intoppo! La signorina, carinissima, mi informa che il foglio che ho stampato della ricevuta della mia richiesta di visto non è abbastanza per farmi partire. Io insisto che era l’unica cosa che si poteva stampare. Lei risponde cortese:
“Si rechi al tal-dei-tali ufficio dell’aeroporto e lì la sapranno aiutare”.
Pur non capendo che c’entri l’ufficio dell’aeroporto con il mio visto seguo il suo consiglio, per scoprire che il tipo dell’ufficio di gente come me ne ha vista tanta e sa esattamente dove cliccare per portarmi al benedetto foglio richiesto, la quale stampa mi costa ben 10 euro!! (Per un totale di 1 minuto di ricerca per l’impiegato).
Con il fatidico e prezioso foglio mi reco di nuovo al check-in e questa volta ci siamo! Ho il mio biglietto in mano! Le solite procedure in aeroporto ed eccomi imbarcata! E per entrare nel mood mi sparo qualche film di Bollywood e assaporo la versione indiana del cibo da aereo di AirIndia.
L’arrivo: Nuova Dehli – Rishikesh
Arrivo a Nuova Dehli alle 1 di notte. Avevo già deciso prima di partire che non avevo voglia di partire all’avventura come faccio al mio solito e improvvisare quando e come sarei arrivata a Rishikesh, perciò, forse per la prima volta nella mia vita da viaggiatrice, decido di prenotare un taxi in anticipo tramite l’Ashram che mi porti direttamente dall’aeroporto all’Ashram Ananda Prakash. E così partiamo in piena notte, io e il mio autista privato, e continuo il mio pisolino. Mi sveglio giusto per la pausa chai e quando arriviamo a qualche ora dall’arrivo, in tempo per vedere le strade che si dipanano, si infangano, perdono i confini mentre ci avviciniamo a Haridwar, cittadina molto importante per i pellegrini induisti che vengono qua per bagnarsi nelle acque del sacro fiume Gange.
Inizio già a scorgere un’India che non avevo ancora visto a Mumbai. Un’India con strade poco affidabili, sensi di marcia totalmente ignorati e la massa di persone su qualsiasi mezzo di locomozione: asini, biciclette, carretti, macchine, furgoncini, scooter. Qualsiasi cosa vi possiate immaginare su una strada e molto di più. Il mio autista guida sicuro in quello che per me è un caos assoluto (e sono solo le 7:30 di mattina circa).
E finalmente iniziamo a salire entrando a Rishikesh. Deve essere proprio l’ora in cui i ragazzi entrano a scuola: in divisa camminano ai bordi delle strade, mentre il resto del traffico scorre attorno a loro. A Rishikesh l’asfalto scompare completamente. Attorno a noi mentre saliamo non vedo alcuna strutta di particolare interesse, anche se il tassista continua a insistere sui ponti (che scoprirò essere la cosa più pittoresca di Rishikesh). L’Ashram si trova nella parte alta della città, che fino a pochi anni fa era una collina verde prima di iniziare a salire nelle montagne. Oggi, è evidente appena arrivo, è ormai piena di costruzioni, con nuove in arrivo. Giriamo a destra e scendiamo in una piccola strada scoscese tra gli edifici. Ai lati delle strade immondizia e acqua che cola (non a caso siamo nella stagione delle pioggie) ed eccomi a destinazione! In tempo per la cerimonia del fuoco, o quasi.
Rishikesh e il mio Ashram
Quando arrivo mi viene assegnata la mia stanza:
” Se vuole può unirsi anche alla colazione, alle 8:30. Ha perso la sessione di yoga del mattino perciò può partecipare a quella delle 17:30 direttamente. Alle 7:30 serviamo cena, alle 9 si spengono le luci e si chiude l’Ashram. La mattina la sveglia è alle 5 e la meditazione alle 5:30. Dalle 6 alle 7:30 la prima lezione di yoga e alle 8 la cerimonia del fuoco” mi dice indicando un gruppo di persone nel cortile attorno ad un fuoco minuziosamente gestito da un signore anziano dalla voce rauca.
“Posso partecipare già?” chiedo incuriosita e anche un po’ impaziente di scoprire le tradizioni de posto.
“Ormai è finita” ed effettivamente dopo gli ultimi versi ripetuti assieme dai partecipanti, il cerchio si scioglie. Conosco la mia coinquilina: spagnola, in viaggio anche lei da sola nel Nord dell’India. Nell’Ashram è consigliato non passare troppo tempo a parlare. Anzi, tre giorni alla settimana i pasti sono in silenzio. Sono sconsigliate le avventure amorose e ovviamente vietato il consumo di sostanze stupefacenti o alteranti, così come la carne. Ci vengono serviti tre pasti al giorno, in piatti di metallo all’indiana, che laviamo ci prendiamo prima di mangiare, rilaviamo e mettiamo a posto una volta finito.
Il cibo dell’Ashram
La sala per i pasti è uno stanzone con dei tappeti lunghi e stretti a terra con davanti dei piccoli tavolini singoli bassi abbastanza da permetterci di appoggiarci il vassoio sopra e sederci a gambe incrociate sul tappeto per mangiare. I pasti vengono serviti in rigoroso silenzio dal personale e da chi soggiorna in Ashram (infatti, quando si sta in Ashram è consigiato un po’ di karma yoga, ovvero volontariato per la struttura e il maestro), che passano con dei pentoloni davanti a ciascuno e distribuendo razioni. Solitamente ogni giorno c’è chapati, riso, dhal o curry di verdure, zuppa e un qualcosa di dolce. La mattina il pasto non è diverso, ma solo più esiguo: un cereale condito, latte e tisana. Ogni pasto è accompagnato da un giro di ghee (burro chiarificato considerato molto salutare).
Rishikesh: una cittadina sui ponti
Il maestro Yogrishi Vishketu (fondatore dell’Ashram e di Akhanda Yoga) non c’era durante il mio soggiorno, perciò ho percepito quanto la mia pratica spirituale fosse dipendente dalla mia intenzione.
Siamo in bassa stagione e la maggior parte delle persone qua sono viaggiatori che vogliono un posto economico dove soggiornare e dove fare yoga. Infatti entrano ed escono dall’Ashram come se fosse un hotel. In qualche modo, quel che cercavo da questa esperienza sembra molto lontano da quel che ho trovato. Anche perchè io stessa sono curiosa di vedere Rishikesh, considerata una città sacra, anche essa appoggiata sulle rive del fiume Gangie. Peccato che ultimamente è anche diventata la capitale dello yoga per gli occidentali, che infatti sono ad ogni angolo della città bevendo cappuccini.
Infatti Rishikesh è piena di caffetterie e posti dove mangiare, dalla dubbia igiene ovviamente. Infatti, è abbastanza sconsigliabile bere succhi di frutta fresca, se non siete sicuri che l’acqua che usano sia in bottiglia. È vero quel che si dice: in India è molto facile prendere la diarrea. E poi Rishikesh è caotica: rumorosa, polverosa e affollata. Insomma, uscire dall’Ashram non è per niente un’esperienza spirituale, al contrario, può anche distrarre molto dalla propria pratica.
Faccio un giro di ricognizione insieme a Yashodara, la mia nuova migliore amica. Una cinquantenne olandese madre di tre figli con padri diversi. Certo non è un’olandese tipica: il padre viene dai caraibi e lei ha lineamenti esotici e capelli afro. Scendiamo subito dopo colazione, quindi verso le 9 del mattino e dopo qualche ora il caldo e l’umidità si fanno soffocanti. Visitiamo qualche tempio, riceviamo un paio di benedizioni, compriamo i nostri primi regali (per me gli ultimi) e andiamo a prenderci un succo di mango in un bar con vista sul Gangie.
In una ora a Rishikesh può succedere di tutto ed è esattamente quello che ho percepito. Infatti per il resto del tempo ho cercato di restare in Ashram e concentrarmi sulla pratica. Le mie riflessioni conclusive?
- Rishikesh ad Agosto è troppo calda e anche troppo bagnata
- Finche non mettono un po’ di asfalto, camminare per Rishikesh vuol dire mangiare polvere
- Svegliarsi alle 5 di mattina è difficile, ma bellissimo
- Se vai in un Ashram, non fare turismo durante il giorno
Green Modern Hills School e la riserva delle Tigri
Il soggiorno ad Anand Prakash Ashram era l’unica cosa veramente in programma. Di organizzare le altre tre settimane di viaggio non ci avevo neanche pensato. Il solo fatto di dover decidere cosa fare (e cosa non fare) era devastante. Come ho detto, quando viaggi in India vuol dire tutto o niente. È un paese così grande che ogni volta che ci sei, hai la netta percezione che stai vivendo solo una delle tantissime sfaccetature e una piccolissima fetta di tutta la torta.
Ci metto un po’ a decidere cosa fare infatti. Da un certo punto di vista, vorrei prolungare il mio soggiorno all’Ashram se non fosse per il clima troppo da ostello, con persone che partivano e nuove che arrivavano ogni giorno. Muoio dalla voglia di andare a Dharamsala, dove per l’appunto il Dalai Lama terrà una lezione pubblica, ma mi spaventavano i racconti degli smottamenti sulle strade a causa della pioggia. Ho incontrato tantissimi viaggiatori che stavano andando o tornando da Leh, una cittadina al nord anticamente capitale del regno di Ladakh molto interessate sia per cultura e religione (piuttosto distinta essendo il crocevia tra India – Cina – Pakistan e Tibet) e sono seriamente tentata, anche se penso che non era la sfaccetatura dell’India di cui sono in cerca in quel momento. D’altro canto, prima di partire ho a lungo cercato un progetto in lungo e in largo presso il quale potevo fare volontariato per viaggiare senza essere in vacanza (tramite il sito Workaway ma non ero riuscita a trovare niente) e alla fine l’altro giorno ho scritto sul gruppo di Rishikesh chiedendo se qualcuno ne conoscesse. Mi ha risposto un ragazzo che mi ha detto di conoscere una scuola sulle montagne dove avrei potuto essere utile. Ovviamente nessun pin su Google Maps che ne indicasse l’esistenza.
Non voglio dire che si debba fidarsi di Facebook e pensandoci bene non so cosa mi abbia spinto a fidarmi di quel ragazzo che avevo sentito per telefono e che era stato tanto ambiguo. Eppure, mi sveglio l’ultima mia mattina all’Ashram dopo una notte di pioggia ininterrotta e sta piovendo ancora. Ho fissato che ci incontreremo alla stazione di Hardiwar non appena il ragazzo mi chiami. Come fare a riconoscerlo non lo so. Io gli ho detto di avere uno zaino grande arancione e spero che mi riconoscerà. Mi domando come saranno le strade, considerato la pioggia. La stazione di Hardiwar è come una delle tante stazioni che incontrerò: degli spiazzi dove autobus senza etichette arrivano e partono. Non c’è traccia di biglietteria (ovviamente) nè di bigliettai.
Ci incontriamo e riconosciamo miracolosamente e iniziamo un viaggio che non sapevo sarebbe durato più di tre ore. Su uno scooter, per delle strade indiane, con uno zaino di 60 chili. Ebbene, a meno che non abbiate 20 anni vi giuro che non è il modo più comodo di viaggiare. Ci fermiamo a dormire dalla sua sorella vedendo la pioggia arrivare. E la pioggia arriva e continua fino al pomeriggio del giorno dopo. Non funzionano i cellulari ovviamente e non ho niente da fare con me, neanche un libro da leggere (ho deciso di non leggere libri per questo viaggio, dato che sono comunque in una storia). Aspettiamo a casa di sua sorella, insieme a suo nipote e qualche vicina che ci passa a salutare. Il giorno dopo ripartiamo e questa volta entriamo nelle montagne, in uno stupendo paesaggio fatto di bosco tropicale. Ci allontaniamo dalla civiltà fino ad arrivare ad un piccolo agglomerato di case. Ci fermiamo a mangiare in quello che sembra il primo esercizio nell’arco di una quarantina di chilometri dove cucinano su di un forno costruito con la terra. E poi Ashish mi mostra la casa dove alloggerò. Una casa aldilà del fiume che noto non essere fornito di ponte.
“Ma l’acqua è bassa” mi fa il mio compagno di viaggio, in tono che secondo lui doveva essere rassicurante.